Lettura postclassica della Divina Commedia (Altro)
QUIVI TROVAMMO PLUTO IL GRAN NIMICO
Lettura postclassica della Divina Commedia
Nelle edizioni della Commedia si incontrano vari problemi di interpretazione e di trascrizione, alcuni dei quali sembrano ormai risolti, mentre per altri non sono in vista spiegazioni convincenti; ne propongo una non esaustiva rassegna, cominciando dai primi temi interessati;
Inferno canto I verso 30
Sì che l‘piè fermo sempre era il più basso
Ma camminando in salita il “piè fermo” si trova ad essere alternativamente il più basso e il più alto. In settecento anni nessuno ha voluto ammettere che l’io narrante usa un arzigogolo per riferire che stava camminando in piano, eppure (verso 31), Dante offre una ridondanza informatica:
Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta
(la salita viene “dopo”)
Inferno canto III verso 51
Non ragioniam di lor ma guarda e passa!
E’ da tralasciare la versione
Non ti curar di lor….
Inferno canto III verso 60
Che fece per viltate il gran rifiuto
Costui è uno dei tanti la cui pena consiste, oltre che nella sofferenza inflitta dal vento e dagli insetti, nella damnatio memoriae, nel non essere mai più ricordati; Dante annulla storia e memoria di questi che non hanno speranza di morte, e nello stesso tempo condivide col lettore il disprezzo per loro, con una magica sinergia di considerazioni collettive (fama di loro il mondo esser non lassa) e di puntualizzazioni (poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto). Non importa chi sia il gran rifiutante, non si dà il privilegio di essere nominato a chi non dovrebbe mai essere esistito. (Sembrano superati i Diocleziano, i Pilato gli Esaù e gli altri).
Inferno canto V verso 9
Mentre che il vento, come fa, ci tace
Tacersi, interrompere l’emanazione di suoni, dunque il vento “si tace”; infatti molti commentatori riportano questa versione evitando il brutto scioglilingua che rovinerebbe un verso di struggente poesia.
Inferno canto V verso 91
Se fosse amico il re dell’universo
Questo lapsus insidiosamente blasfemo è un sintomo della rimozione imperfetta dei risentimenti che invadono il Poeta; inizia l’attacco distruttivo alla dottrina tomistica, con altre “ribellioni” oltre al rifiuto della condanna per Francesca e Paolo,
- Pier delle Vigne (Inf XIII 31 -45); l’io narrante ha colto il ramicello dal pruno e resta attonito durante tutta la protesta del suicida, calpestando la logica del raccontare (tanta deferenza per lo sterpo, quando ancora non sa di chi si tratta). Per il Poeta uno strazio di sentimenti, mentre Pier delle Vigne, nella sua disperata dignità, esige il rispetto di Dante che tiene ancora in mano lo stizzo verde. Il non detto sottostante produce una orrenda delicatezza del brano, che in superficie di delicato non ha nulla.
-Virgilio, chiuso nel Limbo insieme ai fanciulli morti prima del battesimo (Inf IV 41, 42; Purg. VII 28-33); qui il sintomo emerge nel modo di sottolineare la levità della sofferenza, e nell’ammettere una disperazione anestetizzata:
Semo perduti, e sol di tanto offesi,
Che sanza speme vivemo in disìo
…
Loco è laggiù non tristo da martìri
Ma di tenebre solo, ove i lamenti
Non suonan come guai, ma son sospiri
Quivi sto io coi parvoli innocenti
Dai denti morsi della morte, avante
Che fosser dell’umana colpa esenti;
(1)
-Catone custode dell’ingresso del purgatorio
Purgatorio canto I versi 88 – 93
Soltanto dopo diciassette terzine si rivela indirettamente il nome del personaggio. Catone, mentre è oggetto di venerazione con Dante in ginocchio, ascolta silenzioso del percorso privilegiato narrato da Virgilio che pure ne è escluso per sempre; un silenzio significativo.
Quindi l’episodio, dove si prosegue a “confondere” mito e teologia: Virgilio chiede a Catone che in nome della sua Marzia conceda il passaggio a Dante, ma Marzia è per sempre separata dall’Acheronte; Catone, mutilato della facoltà di amare, dà una risposta distaccata, burocratica, dove il sintomo è quel cenno di recriminazione che i versi non riescono a filtrare
Or che di là dal mal fiume dimora,
Più muover non mi può per quella legge
Che fatta fu, quando me n’uscii fuora
Ma se donna del ciel ti muove e regge,
Come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
Bastiti ben che per lei mi richiegge.
(E’ da notare che in questo canto si trovano i versi 115 – 117, tra i più belli di tutta la letteratura).
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Rafel Mei
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